Artists and ceramics. Interview with Ludovica Gioscia (Italian)

Interview by Irene Biolchini, Artribune, January 22, 2021

MONDO VEGETALE E ANIMALE SONO LE PRINCIPALI FONTI DI ISPIRAZIONE PER LUDOVICA GIOSCIA, CHE HA FATTO DELLA CERAMICA IL MATERIALE CHIAVE DEL SUO LINGUAGGIO ARTISTICO.

 

Ludovica Gioscia (Roma, 1977) vive a Londra dalla fine degli Anni Novanta. Dal 2012 ha inserito la ceramica all’interno della sua ricerca.

 

Nel prezioso volume che accompagna la tua ultima mostra, Cosmic Flow, Marina Dacci evidenzia il tuo rapporto costante con un tempo eterno e non lineare paragonando le tue opere a dei fossili. Quale ruolo ha la terra in questo sviluppo? 


Da sempre la mia attività in studio resiste alla direzione lineare del tempo.
Ho preso coscienza di questa mia tendenza istintiva mentre producevo la serie dei Giant Decollages ‒ lavori di dimensione architettonica nati nel 2006 ‒ in cui carte da parati, alcune commerciali altre realizzate in studio con la tecnica della serigrafia, venivano assemblate attraverso una serie di stratificazioni e poi strappate per rivelarne ogni strato. Varietà di pattern, appartenenti a diversi periodi, e altrettante diverse palette di gusto erano, in questo modo, obbligate a coesistere in un momento unico dove la linea tra passato e presente perdeva senso. Strappare le carte era come scavare nell’origine dell’opera, come una sorta di indagine archeologica: dovevo scavare per scoprire, per poter rivelare. Lo stesso istinto mi accompagna nel rapporto con altri materiali, inclusa la terra che è frutto diretto di uno scavo.

 

Ci fai qualche esempio?


Un esempio concreto di come alcune delle mie ceramiche diventano compressioni spazio- temporali è nell’installazione Mineral Rush Flamingo Crush del 2013. Lavoro site specific creato per la galleria a cielo aperto di Mangiabarche a Calasetta, luogo incantato sull’isola di Sant’Antioco nel sud ovest della Sardegna. Oltre a un Giant Decollage abbandonato per essere scolpito dalle intemperie, ho realizzato delle mattonelle tonde, come degli enormi cookies, che andavano a colmare spazi vuoti nella pavimentazione. Le mattonelle, cotte con elementi di ferro, piccoli sassi e detriti ceramici raccolti nei siti locali di archeologia industriale. Lo scavo avviene fisicamente ma anche psicologicamente – alcuni miei lavori sono fossili onirici. Ricreo lavori che sogno ‒ come nel caso di Funghi, Piselli e Panna del 2016 ‒, un cappellino in ceramica che mi è apparso durante un’escursione notturna coperto di frammenti di ravioli, tagliatelle, funghi e piselli. Inoltre il gioco, le sperimentazioni in studio e gli errori sono tutti meccanismi che stimolano moltissimo la mia creatività e a cui rimango legata. Direi che la maggior parte dei miei lavori trattengono le caratteristiche di questi tragitti, come se fossero delle testimonianze materiali di ciò che li ha generati.

 

Alcuni artisti, come Alessandro Roma, hanno messo in relazione la loro ricerca pittorica con la ceramica; altri, come Enzo Cucchi hanno invece segnalato una specificità per ogni linguaggio. Tu come affronti il salto tra una tecnica e l’altra?


Abbraccio l’eterogeneità, la moltitudine di linguaggi così come prediligo l’uso di materiali diversi che coabitano in installazioni di varie dimensioni. Non mi preoccupo assolutamente di tenere separati o di chiarificare determinati linguaggi, anzi, cerco di lavorare collegandomi alla spontaneità che avevo da bambina quando scavavo nella sabbia dove trovavo sempre qualcosa che mi ispirava.

 

LUDOVICA GIOSCIA E LA NATURA

In mostra a Los Angeles presenti lavori realizzati in collaborazione con esseri animali e vegetali. Come intendi la parola “collaborazione” in questo caso? 


Ho cominciato a collaborare con il regno vegetale nel 2019 mentre ero in residenza in Francia (Launch Pad Lab). Si trattava di una residenza in un luogo rurale dove ho avuto l’opportunità di fare lunghe passeggiate nei boschi di zona, in cui non incontravo mai nessuno. Ma avevo gli alberi tutti per me. Un giorno durante una piacevole camminata mi sono imbattuta in una quercia enorme ‒ che chiamavo Quercia Generosa ‒ e mi sono resa conto che ne vedevo l’aura. Da quel momento sono tornata a trovarla tutti i giorni e abbiamo cominciato a dialogare. Passavo pomeriggi a leggerle i tarocchi, a meditarci, ad abbracciarla, a rilassarmi in sua compagnia. Da questa relazione sono nati diversi lavori in ceramica realizzati con argille acquistate a Limoges (a pochi chilometri da dove eravamo). La Quercia Generosa mi chiedeva di abbracciarla con l’argilla, e naturalmente io obbedivo: si sono generate così delle opere di contatto, che potrei definire come impressioni di un’amicizia. I risultati di questa collaborazione sono confluiti nell’installazione site specific parte della mia personale The Tenderness Of Insects per la galleria VITRINE a Basilea nello stesso anno.

 

Come si è evoluta nel tempo questa modalità di relazione con i tuoi soggetti?


Questa modalità di collaborazione inter-specie si è organicamente evoluta in una collaborazione quotidiana con il mio adorato gatto Arturo. I risultati delle nostre interazioni sono in mostra alla Baert Gallery di Los Angeles per la mia seconda personale intitolata Arturo And The Vertical Sea. Tre grandi strutture di legno ospitano lavori in ceramica, assemblage tessili, cartepeste e carte da parati dipinte. Le cartepeste hanno assorbito ingredienti anomali come la gioia, l’affetto e le fusa che fa Arturo. Per realizzarle ho utilizzato tecniche di distillazione che ho appreso durante un corso di medicina vibrazionale per condensare queste emozioni. Gli assemblage tessili invece includono i suoi peli, meticolosamente raccolti durante i nostri “spazzolamenti” la sera. O forse dovrei dire la sua mezz’ora di spa, che avviene sempre tra le 23.30 e le 24. Prima Arturo non è disponibile perché impegnato nelle sue ronde nei giardini dei vicini. In mostra anche una serie di acquarelli che raffigurano i messaggi che Arturo mi trasmette mentre gli tengo la zampa e ci addormentiamo insieme. Il momento prima di perdere conoscenza le nostre menti si sintonizzano come due walkie-talkie e Arturo mi manda dei segnali, come degli sprazzi di colore intenso. Ci sono davvero momenti in cui è come se ci fondessimo, è uno stato che posso solo descrivere come ‘stato zabaione’. Le ceramiche in mostra invece si avvicinano alla descrizione di questi stati, come Arturos Incarnations (2020). La maggior parte delle ceramiche sono devozionali e costituite da diversi elementi appesi, spesso raffigurazioni di Arturo. Degli ex-voto per la divinità arancione a quattro zampe con cui convivo e che mi rende profondamente felice. Direi che le ceramiche, oltre a omaggiare, sono ritratti delle nostre emozioni condivise, dei nostri stati.

 

Negli anni hai lavorato la terra in numerosi contesti, sia italiani che internazionali, specie in Inghilterra dove, come notava Tommaso Corvi Mora, c’è una fortissima tradizione del craft. Il tuo approccio è cambiato a seconda dei contesti?


In Inghilterra, dove vivo da venticinque anni, la ceramica la lavoro in studio e poi utilizzo forni esterni, per cui è un processo meditativo e isolato. In Italia invece ho avuto la fortuna di fare delle residenze molto interessanti. Nel 2017 ho partecipato a Materia Montelupo, progetto a cura di Matteo Zauli, dove ho lavorato per un periodo nella bottega dei Fratelli Bartoloni. Un’esperienza fantastica, sono stata colpita da un’energia bellissima in azienda e loro sono stati divini. Ho imparato molto sul colore, in particolare sulla maiolica. Il progetto si è concluso con una mostra a Palazzo Podestarile per la quale Patrizio Bartoloni e io abbiamo collaborato su un’installazione di ceramiche intitolata Gran Pasticcio.

 

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